U.S. Girls – Scratch It: Non cè tempo per Patti Smith :: Le Recensioni di OndaRock
Il nuovo disco di U.S. Girls non ha il physique du rôle dell’album maggiore. Non per ambizione o portata creativa, ma per come è stato concepito. “Scratch It”, infatti, non è frutto di una scrittura pianificata o di sessioni in studio strutturate: prende, invece, forma da una registrazione dal vivo realizzata in Arkansas e successivamente modificata, riassemblata e stratificata in fase di post-produzione. Un punto di partenza contingente, quasi casuale con un risultato non sempre lineare, dove l’identità di Meg Remy emerge soprattutto per sottrazione, nei tagli improvvisi, nei passaggi fuori fuoco e nei gesti volutamente grezzi.
Il disco si compone di nove tracce che si muovono tra brani originali e due cover, per un totale che non supera i quaranta minuti ma che risulta denso di soluzioni, deviazioni, spunti non sempre rifiniti. Più che un concept, l’album si configura come una raccolta di nuclei musicali indipendenti, in dialogo tra loro senza necessità di una cornice narrativa unificante.
Se “Bless This Mess” affrontava in modo diretto il tema della maternità e della ridefinizione del ruolo dell’artista nella vita familiare, “Scratch It“ lo assume come dato di fatto e condizione strutturale. La voce di Remy è quella di una performer che lavora mentre interrompe il lavoro, che registra tra un’urgenza domestica e l’altra. “Dear Patti” è costruito su questa ambiguità: una sorta di lettera ironica e semi-parlata indirizzata a Patti Smith, con la quale Meg si scusa per non aver assistito a un suo concerto, troppo impegnata a tenere i figli lontani dal rischio di affogare in un lago. Il tono è sarcastico, ma sotto la superficie si intravede un’interessante riflessione sulla gestione dell’autonomia e dell’ammirazione, sulla distanza forzata tra chi si è e chi si era.
All’opposto, per peso specifico e registro emotivo, si colloca “Bookends“, suite di oltre nove minuti posta al centro della tracklist, dedicata a Riley Gale, leader dei Power Trip e attivista politico, scomparso nel 2020. Remy ha dichiarato di essersi parzialmente ispirata nella scrittura alla raccolta “Eyewitness To History” di John Carey: un’antologia di testimonianze dirette che attraversano i grandi eventi storici dal punto di vista di chi li ha vissuti in prima persona. Non è difficile intuire perché quel modello narrativo, frammentario e soggettivo, abbia attratto Remy che ama nei suoi testi scegliere una prospettiva sempre particolare. La materia grezza dei fatti, dei nomi, delle date non basta: serve la storia minuscola, vissuta, imperfetta, emotiva. Dal punto di vista strettamente musicale, la traccia si apre in maniera minimale, con tastiere sparse e modulazioni lente d’atmosfera e si sviluppa in modo progressivo prima con un assolo di armonica suonata dal leggendario Charlie McCoy per poi sfumare in deviazioni funk e soul e un ritmo sempre più movimentato. È probabilmente il brano più complesso dell’album, e anche quello che rivela il maggiore controllo formale.
Le due cover che compaiono nella tracklist non svolgono un ruolo accessorio, né appaiono come deviazioni estemporanee. “Firefly On The 4th Of July”, originariamente di Alex Lukashevsky, è un brano atipico fin dalla sua struttura: una anti-ballata che tratta la distruzione nucleare con un tono quasi grottesco. Remy la riprende accentuando i contrasti interni, spingendo sull’instabilità ritmica e sugli innesti timbrici spigolosi, in una forma che sembra continuamente sfuggire a una quadratura. Più atmosferica e meno dissonante, “The Clearing” di Micah Blue Smaldone viene invece decomposta e ricostruita come un canto dilatato, dove l’organo e l’armonica si rincorrono su piani diversi, generando un’architettura sonora stratificata che richiama suggestioni western e aperture folk d’America profonda. Entrambe le riletture evitano la reverenza e aderiscono pienamente all’estetica obliqua dell’album.
Il resto del disco alterna momenti più centrati ad altri meno compiuti, ma mantiene una tensione di fondo grazie anche al contributo dei musicisti coinvolti. L’inizio è affidato a “Like James Said”, episodio disteso e permeabile, in cui un groove morbido di basso (Little Jack Lawrence dei The Raconteurs) si sviluppa su un incrocio tra spiritualità gospel e sensualità funk. Il riferimento a George Clinton è evocato più nel fraseggio che nella struttura, ma funziona bene come apertura: accogliente, ma non piatta. Più avanti, “Walking Song” parte come un brano soul midtempo con impianto minimale e una base ritmica rotonda, salvo poi subire una trasformazione inattesa a metà corsa, quando un organo insistente irrompe sulla scena, trascinando la traccia in una spirale psych-soul dal sapore decisamente 70’s. “Walking Song”, come del resto molti brani dell’album, è fondamentalmente un gioco di incastri e deviazioni nato da un contesto live, più vicino alla jam session tra musicisti navigati che alla pianificazione da studio.
È dentro questa dinamica, fatta di scarti, sovrapposizioni e gesti aperti, che “Scratch It“ prende forma: non un album pensato per affermarsi come punto fermo, ma un lavoro laterale che sceglie consapevolmente di abitare una zona intermedia. Remy non cerca di nascondere le cuciture: le rende visibili, le usa per costruire un discorso che è musicale ma anche produttivo, quasi “logistico”. Non tutto è rifinito, e non tutto vuole esserlo. Ma proprio in questa forma aperta, il lavoro trova una sua forza: è un disco che non rassicura, non si compatta, e non ha paura di presentarsi incompleto.
19/07/2025